Recensione Detroit: Become Human

Ci siamo, dopo una lunga attesa David Cage torna per deliziare la mente degli appassionati con una delle sue avventure grafiche. Da anni Quantic Dream sotto il vigile controllo dello scrittore aveva sfornato prodotti dalle proprietà emotive elevate, oltre che rappresentare una vera delizia per gli occhi. Con l’arrivo di Detroit: Become Human ciò torna in discussione, sicuramente gravato dal peso delle aspettative che quest’opera ha sulle spalle. L’ambizioso progetto di Cage non è un prodotto chiuso in sé stesso, ma l’urlo di un genere videoludico, che per decenni ha intrattenuto ed affascinato player di tutte le età. Come abbiamo visto in passato, in opere come Heavy Rain, questi titoli vantano la velleità di carpire l’ineffabilità dell’animo umano in contesti unici e dipingendo incubi troppo reali per la società. Sarà riuscito lo scrittore ad affascinare e colpire ancora una volta?

Il primo grande azzardo, come già analizzato da noi prima dell’uscita del titolo, è la scelta dell’ambientazione. Detroit difatti viene rappresentata dallo stesso Cage come un universo tangibile: una vera e propria culla del mondo. L’aria che si respira è familiare e trasuda di ricordi, la nostra realtà sembra racchiusa nel bozzolo della nuova tecnologia, che spalanca le porte ad un’era colma di dubbi. L’obbiettivo del team è quello di farci assaggiare una realtà verosimile, nella quale le luci e le ombre della nuova era tecnologica vengono messe a nudo. L’aspetto della città muta intorno ai personaggi che la vivono, spesso facendola apparire come il cuore dell’intero universo. Ciò che succede a Detroit è sinonimo di cambiamento, una città che rappresenta il culmine dell’ideologia morale futuristica. La CyberLife, l’azienda che produce questi androidi ha cambiato la nostra quotidianità, ma starà a voi decidere se cambieranno la vita.

[su_quote]

Quest’opera è l’urlo di un genere che ha ancora molto da raccontare, in un mondo che ha bisogno di sognare.

[/su_quote]

Tutto, all’interno di Detroit Become Human, è vivo e vuole dialogare con noi, partendo dallo stesso menù di gioco. Questa piacevole sorpresa porta con sé al contempo ulteriori emozioni contrastanti. L’androide presente nel nostro menù è vicina alle nostre esperienze, sa perfettamente che scelte stiamo prendendo ed avrà talvolta reazioni inaspettate. Ancora una volta esce allo scoperto un etereo dualismo uomo- macchina che rafforza i dubbi sollevati da Cage nella storyline principale. Il titolo è una finestra sul quel futuro che ci spaventa e affascina, un racconto nuovo che riesce a mettere in discussione gli errori del genere umano. Cage qui appare come il profeta dell’eterno ritorno, un giudice che separa il bene dal male, capace di metterci davanti i nostri demoni. Non fatevi ingannare da sangue blu e circuiti, questo mondo lo abbiamo visto già in passato, solo in forma diversa.

Il mondo sembra diventato troppo stretto per androidi ed umani e potrebbe essere l’inizio di una lotta tra sangue rosso e blu. Sarà davvero la fine?

Per raccontarci questa ramificata trama, Cage decide di affidarci a tre androidi molto diversi tra loro, ma allo stesso tempo molto simili. In seguito ad eventi traumatici, i protagonisti si troveranno coinvolti in profondi contrasti interiori, atti a scuoterli dal freddo torpore emotivo. Il primo personaggio con cui entriamo in contatto è Connor, un androide che svolge il ruolo di detective in una Detroit che fa di tutto per insabbiare le prove che i suoi simili possano provare emozioni irrazionali. Se una macchina smette di seguire i propri ordini e si lascia governare da istinti irrazionali diventi un essere deviante. Egli viene inviato apposta dalla CyberLife in veste di “cacciatore di devianti”, per contenere una sorta di ribellione mossa da rA9, un simbolo ricorrente in tutte le scene del crimine analizzate dal protagonista. Il suo punto di vista prettamente pragmatico ci spingerà ad entrare in contatto con altre macchine in fuga per la libertà; in molte occasioni purtroppo questi androidi si spingeranno verso il limite e, non sapendo contenere queste emozioni, sfoceranno in atti bellici.

[su_quote]

La storia è una melodia malinconica, che rappresenta il dramma dell’umanità, cantata da voci meccaniche.

[/su_quote]

Come reagisce una delle macchine se coinvolta in un trauma umano? Per spiegarci questo ci viene presentata la figura di Kara, un androide domestico, creato con il compito di accudire la casa e il nucleo familiare. Ella si ritroverà immischiata in una dramma domestico, che coinvolgerà Alice, una bambina introversa e coraggiosa. La piccola sarà più volte sotto le pressioni di suo padre Todd, un orco che scaricherà su di lei le frustrazioni di una vita, colma di rimorsi e rimpianti. Proprio durante uno dei suoi, ormai frequenti, scatti d’ira cieca, l’androide dovrà decidere se difendere la bambina o rimanere in silenzio di fronte a queste torture. Il ruolo di Kara all’interno della storyline principale è solo un pretesto per provocare una domanda più sottile e velata: affidereste mai la vita di un vostro caro nelle mani di una macchina?  Nel momento in cui si sovverte il ruolo di mero oggetto inanimato, e si abbraccia l’idea che in esso possa risiedere una qualcosa di più complesso, lì vi è l’essenza di Detroit: Become Human.

Le emozioni primitive, ora più che mai, capiamo che sono sentimenti che possiamo solo soffocare, ma non per sempre.

L’ultimo androide ad essere presentato è Markus, che svolgerà come mansione il badante di un famoso pittore, impossibilitato a camminare e costretto su una sedia a rotelle. In seguito a traumi inaspettati, il protagonista reagirà a tutto il male che lo investe e deciderà di scontarsi con gli umani. Il suo è un destino machiavellico e le sue decisioni dettate dall’incomprensione; la sua peculiarità difatti è la leadership, ossia la capacità di convertire un androide in “deviante”, portando alla luce il lato umano. Il personaggio risulta aver il più alto indice di gradimento secondo il sondaggio effettuato da Quantic Dream, questo perché è la chiave che rompe gli equilibri nella storyline, una sorta di bilancia capace di far pendere le decisioni di tutti gli altri androidi verso la pace o la guerra. La vita di Markus e tutto ciò che ruota interno a lui sono influenzate dal suo carisma, egli appare come un messia difronte alla sua gente, capace di far miracoli e promesse di vita migliore.

[su_quote]

L’ambientazione non è altro che il palcoscenico dove si esibisce la follia umana, un luogo dove esorcizzare le proprie paure.

[/su_quote]

Ma quindi c’è una chiave di lettura unica dell’opera? No, perché non tutto è raccontato nelle dinamiche della storia, alcune cose rimangono mute ed aperte al nostro immaginario. Sebbene vi siano forti elementi legami alla religione e politica, non dobbiamo scordarci che questo è un prodotto di matrice sociale. Con l’ausilio di oggetti come riviste digitali, noi in prima persona saremo informati dei cambiamenti che imperversano nel mondo. David Cage ha difatti deciso di rendere il prodotto un mezzo divulgativo, una sorta di messaggio di speranza a tutti i futuri abitati del mondo. Come citato più volte all’interno dei dialoghi di gioco è in realtà l’uomo la macchina più fragile di tutte, e la perfezione degli androidi lo spaventa e stranisce. La perdita di certezze, tra le quali essere la specie dominante sul pianeta, viene a mancare nel momento in cui si percepisce che le macchine non sono poi così diverse da noi.

In Detroit: Become Human non serve sempre un dialogo per trasmetterci qualcosa, anche delle semplici riviste possono contenere storie affascinanti.

Proprio perché Detroit: Become Human è un prodotto sciolto e senza vincoli, non vi è una vera e propria fine. Quantic Dream non lascia trapelare dei finali drastici per la trama, ma cerca di più il contatto con noi, oltre lo schermo. L’opera in sé è senza tempo, riuscendo sia a condurci di fronte ai nostri errori che mettendoci alla prova. La tecnologia ci spaventa e David Cage lo sa. Sfruttando una paura soffocata, che è in noi da pellicole cinematografiche del calibro di Blade Runner ed Io Robot, il titolo vuole sensibilizzarci in vista del futuro. In alcune scene infatti il gioco tende ad essere poliedrico, apparendo a tratti horror. Questo perché il diverso ci spaventa e fingiamo sia sufficiente essere semplici spettatori; ma altri sono i messaggi di propaganda del titolo, tra i quali il bisogno di proteggere la natura ed evitare così di trasferirci su un altro pianeta e la speranza di fare un giorno turismo spaziale, scoprendo l’ignoto.

Detroit: Become Human conquista dunque il suo obbiettivo, in un solo prodotto vi sono elementi didattici e allo stesso tempo emozionali. L’opera è viva, non ci racconta solo qualcosa, ma pretende che la tocchiamo con mano. Il nostro consiglio è difatti quello di lasciarvi perdere nelle ambientazioni del gioco, davvero uniche e mai statiche. In ognuna di queste il team ha lasciato qualcosa per voi, un testamento per il futuro e una prova per voi stessi. Il gioco sebbene sia unico nel suo genere e tocca elementi così delicati con il giusto tatto, non arriva all’eccellenza per pochissimo. Alcuni elementi, primo tra tutti il fattore erotico tra umani e androidi, non sembra essere curato con la stessa accortezza degli altri. Alcune domande rimangono aperte e senza risposta, ma chissà, forse volutamente. Nell’insieme l’opera si afferma tra le eccellenza del panorama videoludico, offrendo per la prima volta un prodotto atto alla nostra educazione emotiva: un insegnamento senza tempo.